20060327

Comunicato dall'estremo oriente #9

55 febbraio 2006
trentesimoquarto giorno del nuovo calendario coreano

anche se non dovrei, chiedo venia per il ritardo nella trasmissione di questo mio. è che il tempo ha cominciato a correre con l'arrivo delle temperature più miti. in oltre una serie di complicate procedure burocratiche mi hanno legato a tempi e corse transcittadine. procedure complicate tipo il pagamento dell'affitto, il riappropriarsi del passaporto e con esso della mia nuova identità, la spesona al supermercato, l'acquisto della macchina fotografica.

ieri pomeriggio di ritorno da uno dei miei giri che saprete solo al prossimo comunicato, decido di riposarmi nel caffé della polvere. sognavo un riposante stravaccamento al tepore dei raggi pomeridiani, la musica di un pomeriggio viennese, la mia cameriera preferita, un té con i pezzettoni dentro, magari un boccone di torta.
la musica era italiana, niente torta, il posto vicino alla finestra era occupato, ma tanto il sole al pomeriggio non arriva e neanche la cameriera. peraltro, non sono neanche stato mai a vienna. ma bando alle ciance. finalmente le prime immagini dalla nuova fotocamera dell'inviato.


la cassa, notare la scaffalatura di dischi di ludwig a riposo. ho messo questa foto (che i più critici riconosceranno essere anche mossa), perché faccia un poco da copertina. mi pare che trasmetta anche abbastanza lo spirito del luogo. ma tanto che ne sapete voi che state laggiù?

l’ingresso è al di sotto il grande cartello hakrim coffee. c’è un porta che dà su un corridoio di legno scuro; il corridoio arriva ad una scaletta scura che si attorciglia fino al primo piano. notare l’aspetto vagamente nord europeo, ma attualizzato con lussureggianti accostamenti magenta-ciano. hakrim potrebbe voler dire polvere. ma tanto che ne sapete voi che state laggiù?

appena si entra, e quando ci si siede nel posto dove mi sono seduto io, ci si confronta con una raffinatezza di progettazione che è rara di questi tempi (un qualcosa tra uno scarpa un albini un cavaglià e un giordano arreda). in particolare notare le finestre sulla destra, in corrispondenza equivalente del posto a sedere (lo so che il posto è arrivato dopo, probabilmente, ma non è affascinante questo incontrarsi tra l’arredo e l’edificio, fino al confondere cosa ci sarà prima e cosa c’era dopo?). a sinistra, invece, si intravede la sezione del ridotto soppalco: il corridoio rimane ad una quota di due gradini più bassi, in modo da consentire un’agevole percorribilità, e i posti a sedere si sopraelevano, per agevolare la fruizione dell’area sottostante. questa immagine è un po’ postprodotta. ma tanto che ne sapete voi che state laggiù?

il bancone, con tutto il bailamme di superfetazioni e di storie nate vissute appassite sopra e intorno ad esso. alla sinistra il cosiddetto coffin, uno strumento dalla non meglio definita funzione se non quella semplicemente di apparire in qualsiasi dei locali pubblici. si intravedono in primo piano i sedili raccogli polvere. sulla piglia la testa di ludwig. intorno un fiorire di coreani.

marco, che mi ha raggiunto nel tardo pomeriggio, dice che difficilmente in seoul c’è un locale altrettanto vecchio. 1956.

alla prossima, davide

rsckp

20060318

Comunicato dall'estremo oriente #8

46 febbraio 2006
ventesimoprimo giorno del nuovo calendario coreano,

spenderò questi due minuti e mezzo di introduzione per perorare delle istanze che sono tutte mie e private. vorrei che fosse chiaro che questo non è un programma tipo ‘ve la do io la corea’. è piuttosto un diario di brodo e di zuppe coreane. insomma non fatemi fretta che sennò scrivo porcate e leggi elettorali.

tv. martedì notte quaggiù c’è stato l’atteso confronto politico tra i due leader politici pro-dee kim e bel-hoo chon. un po’ tutta la nazione e l’asia stavano aspettando questo momento, da quasi dieci anni. tant’è che, malgrado l’ingessatura del contesto (solo pochi stendardi rossi, un basso tavolino scuro, una griglia per la carne sul fondo, due zuppe fumanti al centro), non grande è stata la lotta né aspra né forte. pro-dee, pur essendo partito come un risciò a tarda sera, stanco, ha trovato la via in discesa. bel-hoo chon è sembrato più un tassista ubriaco tra le curve di montecarlo. questo è quanto si è visto da qui, col favore dalla distanza e con le prospettive un poco più piatte; è sembrato di assistere alla ripresa al rallentatore di un sopraggiungente autunno. mi riferisco nel particolare al momento in cui bel-hoo chon ha esposto la sua visione ottocentesca della categoria delle femmine; mi domando e chiedo (e cito così sho-gee, giornalista presente al dibattito) perché in quel momento pro-dee kim non ha sferzato l’attacco mortale, perché ha avuto pietà e non ha infilzato l’avversario con il sacro pugnale dell’emancipazione? perché in questo confronto abbiamo solo assistito ad un suicidio politico? perché non abbiamo visto il rosso sangue? è forse questa la strategia, quella di far disfare tutto agli altri? perché non ci assumiamo un poco il compito il diritto il dovere il piacere dell’uccidere? ai postumi del mal di schiena di bel-hoo chon l’ardua sentenza.
thesis. dopo l’ultimo faculty meeting, non so come, mi sono ritrovato con quattro tesisti. intendo gente che per estrazione o per scelta (ma su quali basi?) hanno scelto me come supervisor del loro lavoro di diploma. due sono uomini, hook-lee ming e choi-lu park. il primo fa una tesi su nuovi sistemi del controllo del traffico. l’altro disegna una nuova fermata per l’autobus. i nomi delle femmine con l’ultima riforma sono stati aboliti. per loro solo sommarie descrizioni oggettive (bionda-mora, alta-bassa, bbona-racchia). una di loro (bassa-racchia) fa un lavoro sulla proiezione di film per schermi mobili, ma pensavo di cambiarle il titolo e di approfondire la grafica del ricamo tradizionale; l’altra (mora-bbona) progetta un’interfaccia non fisica per sistemi di gestione della casa, cosa che comunque mi sembra più appropriata alla specie cui appartiene. tra due settimane tutti i diplomandi devono presentare il tema della tesi alla riunione plenaria dei professori. ho suggerito agli uomini di preparare un comizio elettorale per convincere la platea. alle donne di fare un peep-show per scioccare il pubblico.
digital media design studio 1. i lavori si approssimano alla prima verifica, che consisterà nella presentazione del proprio lost space ritrovato. gli studenti dispongono dai dieci ai quindici minuti di completa libertà espressiva (proiezioni, film, conferenza, teatro, mostra); in ardito parallelo con la presentazione delle tesi di cui al capo precedente, il fine è di riuscire a convincere me e gli altri studenti (ombre di finta democrazia arrivano fino a seoul, soffiate dal vento del nord) che proprio il loro caso studio sarà quello più adatto alla prossima esercitazione. ho suggerito loro di controllare ogni parola e ogni immagine della presentazione. ho chiesto di sorprendere per convincere, ma non so se sono stato chiaro; nel dubbio non mi aspetto niente, così se arriva anche mezza sorpresa vale doppio. comunque fermarmi per veder lavorare la gente è un piacere che non mi ero mai concesso prima.
typo & image 2. dopo la mia lezione in cui proclamavo che la giusta e nuova via è less is less, more is more, e cioè più si lavora meglio si produce, gli studenti lavorano, ma mi guardano con occhio meno benevolo. che dire? capiranno. mi piace il tema dell’esercitazione che stanno svolgendo, e nel mentre che li vedo all’opera mi vengono in mente varie possibilità. non so se dirle ora o dopo. continuo a mangiare instant noodles, e la dipendenza dal cibo chimico aumenta.
contemporary issues in design 1. ho già accennato che il terzo corso cui attendo (insieme a simone da cambiano) è uno dei corsi di dottorato. non è un corso che tutti i professori amano, essendo spesso non esattamente attinente al proprio campo dello scibile, e soprattutto relegato in orari tardo pomeridiani della tarda settimana (dalle cinque alle otto del giovedì). e allora la struttura del corso che noi due, raffinati strateghi italiani, abbiamo approntato è la seguente. ogni professore della scuola deve tenere una ed una sola lezione durante tutto l’arco del semestre. il titolo della lezione è libero, e i docenti spesso presentano lezioni preparate per altri contesti. ciascuno a fianco della lezione mette a disposizione la serie di slides usate, in modo che alla fine ci sia un’ampia collezione di immagini. allo studente del corso il compito di ricreare un personale percorso utilizzando solamente alcune foto e alcuni schemi, presi però da tutte le lezioni. a giugno, raccolti tutti i saggi, si produce un libro, che varrà in qualche modo come pubblicazione per tutti. grande motivazione da parte dei dottorandi e piccolo impegno del corpo docente. l’unione della scuola fa lo sforzo dello studente. non so perché ve lo racconto, forse è il mio personale e soporifero canale dedicato al gioco del go.
l’ultima lezione è stata tenuta da roger pitiot, designér francese, in forze al dipartimento di product design. sì è quello di uàit monkìs. sono passati già un paio di giorni, e quindi il ricordo mi si annebbia; però il senso della lezione, che passava dai situazionisti a borges a eco a matrix a macluàn a il media è messaggio a il media è massaggio e la realtà è finzione a adbusters a undesign a venature di impegno anarcoide mi hanno fatto pensare (a fabio) e mi hanno divertito.
video. in seguito una vernice per la presentazione di un video di una exstudentessa di IDAS. momento dagli occhi grandi, nel senso che il luogo (l’ambasciata spagnola) era pieno di occidentali. il video così così. poi, tornando alla mia torre ho scoperto (ok, rogér mi ha fatto scoprire) che giusto dietro casa c’è un circolo di jazz, nonché un’altissima concentrazione di teatri. il mio tracciato di quotidianità si sta tranquillamente disegnando da solo; scuola, donkas, caffetteria polverosa, zuppa vietnamita, circolo jazz. la domanda si sorge spontanea: uscirò mai dal mio isolato?
internet. meno male che da ieri ho internet a casa, così in qualche modo almeno dalla sala ovale ci devo passare. uno pensa che in un paese che si accinge a scalzare l’italia dal G8 come è la corea del sud (mai avrei pensato di poter concordare con sergio pininfarina…) avere una connessione internet sia un automatismo piuttosto che una richiesta. e infatti tecnicamente è una fesseria, niente pubblicità di bobonevieri, niente scatole nere che ti arrivano a casa, niente numeri da inserire o connessioni da avviare. ma per avere il tecnico a casa, con il servizio telefonico che parla solo un dialetto stretto del quartiere di dongdaemun, mi ci sono volute una trafila di due giorni di fax e di telefonate e richieste se c’è un amico coreano nei paraggi, ma ce l’ho almeno un amico? e io sì di amici ne ho, sono un po’ fuori mano, forse. insomma. venerdì mattina, dalla nuvola gialla di un’improvvisa esplosione in prossimità del bagno, appare questo tale di aspetto vagamente bafomettiano, un omino odoroso con fili che gli spuntano dalle tasche e dalle orecchie. smonta le prese, apre delle sue scatole e scatoline, accende i suoi fungitopi elettronici. le uniche parole che dice sono auongò iounongò, indicando sopra e sotto. scumpare turiddu, cumpare turiddu. finalmente attacca il computer e internet funziona. un ultimo sorriso arcigno, una luce che tracima dal suo essere, un’esplosione, un fumo. disappare lasciando permanente il suo odore di zolfo. io non ho detto parola.
denari. martedì arriverà la prima paghetta. è un po’ come natale che si avvicna. nel mentre, con la mia nuova diabolica connessione alla grande rete del mondo, controllo i voli seoul-zürich, in modo che ci sia un po’ di felicità anche per noi.

c’è una gazza che svolazza intorno al palazzo di fronte. fa fatica a salire in quota, e allora si ferma prima sul bordo di un cornicione. poi si ferma sulle luci di segnalazione degli ingombri, quelle rosse che la notte fanno le città come aeroporti. poi raggiunge una delle scritte della pubblicità in cima all’edificio. porta nel becco un piccolo ramo e lo posa nell’ansa di un sorriso tra le parole amiche. costruisce un nido in coreano.
la primavera intanto tarda ad arrivare.

alla prossima, davide


ilxdudc

20060314

Comunicato dall'estremo oriente #7

42 febbraio 2006
decimosettimo giorno del nuovo calendario coreano

accolgo alcune note arrivatemi in via privata e riduco la lunghezza dei comunicati. mi sa che comunque non è che poteva capitare che ogni giorno è una sorpresa da raccontare. è in italia che ci sono le elezioni, c’è berlusconi, c’è prodi: è lì che pulsa la novità. è da lì che mi aspetto ogni giorno un nuovo comunicato.

prima impressione. ho già accennato al fatto che gli studenti dello studio di digital media design hanno come prima esercitazione il cercare gli spazi disusi della città. per evitare di perdere i già detti pulcini nelle lande di questo borgo da dodicimilioni, ho fatto che circoscrivere il campo di analisi ad un unico block. che grossomodo è grande dodici volte uno dei nostri a torino. per sfida e per inerzia ho passato la fine della scorsa settimana senza uscire dall’isolato. praticamente non mi sono accorto della mia autolimitazione. tutto a portata di mano, scuola, familymart (che è come il supermercato crai di via berthollet, ma è aperto sempre), la banca, il donkas, la caffetteria, il vietnamita. guardo con indifferenza lo starbucks e il burgerking che ammiccano dall’altra parte dell’oceano, al di là del semaforo. potrei vivere qui dentro, nella mia turris eburnea, per sempre. non fosse per voi.

undicesimo fatto. (brandello dello scorso comunicato) la casa la sapete già tutta. nel senso che non è che ci sia molto di più della stanza tonda. un bagno e un angolo cottura. altro non serve. subito fuori dalla porta, però, c'è un buio fitto. sembra di aver attraversato lo specchio di matrix. però al negativo. si intravede giusto un corridoio cominciare. ai primi passi si accende una lampada, una via di mezzo tra il cavò di una banca e l’ultimo rifugio di hitler. non è che ci sia molta differenza, e questo mi fa pensare a hitler alle banche e a me. comunque. altri passi. si spegne la luce di dietro, se ne accende una davanti. lo so che esistono i sensori di movimento. ma proprio nel corridoio della mio castello, con orde di occhi a mandorla nelle tenebre pronti per rubarmi la mia preziosa carta della metropolitana prepagata? così si va avanti per ventimetri, sette tenebre e sei luci. al fondo c’è l’ascensore. (nell’attesa che arrivi l’ascensore muoversi così che l’ultima luce non si spenga). l’ascensore, l’ho già detto, ma lo ridico ché fa scena, è di quelli tutti vetrati. ci ha anche le lucine che si vedono dall’esterno. avevo sempre pensato che più pacchiano delle lampade al neon viola montate sotto lo scooter non esistesse nulla. poi vi mando le foto. all’ingresso risiede il portinaio. ha un suo bancone, con la tv e la stufetta elettrica sempre accese. io saluto, anion-aseio. lui dorme. invariabile. ha la stufetta accesa perché oggi qui ha nevicato.

l’altro giorno ho avuto fame. sto lentamente assumendo le abitudini del luogo. quando un coreano ha fame un coreano mangia, che è un po’ come facciamo noi del lato giusto. però noi ci teniamo la fame generalmente fino al mezzopasto più vicino. un coreano no, un coreano che ha fame mangia subito. a questo credo si debba il fatto che qui è un luogo pieno di posti piccoli dove mangiare a poco prezzo. ma torniamo all’altro giorno. camminavo tranquillo dentro il mio recinto di marciapiedi e ho avuto fame. quindi ho mangiato. il primo posto che ho incontrato e in cui sono entrato era gestito dalla mamma di nicola. mi sorrideva come sempre, solo che stavolta faceva finta di non capire. io per conto mio mi sforzavo di fare i miei soliti chiarissimi tentativi di comunicazione a gesti gentile signora passavo di qui e ho pensato che bel posto tipico è questo e mi sono detto adesso entro e do un’occhiata se c’è qualcosa di buono e poco costoso da mettere nel mio stomaco occidentale non è che disturbo?
lei mi sorride e dice sì. io lo so cosa vuol dire. vuol dire che non ha capito.
ripeto. e per esser più lineare spiego con pochi cenni anche
la situazione in cui mi sono trovato una volta che c’era una manifestazione e sono entrato in un bar che faceva un marocchino molto buono sa cos’è un marocchino?
lei mi sorride e dice sì. io lo so cosa vuol dire. vuol dire che non ha capito.
mi tolgo la giacca e mi accingo a spiegare la situazione politica dell’italia all’inizio degli anni ottanta, la morte di berlinguer, le brigate rosse, l’ascesa di craxi, fanfani, andreotti, i fatti di comiso. quand’ecco che entra un colletto bianco disceso da uno dei palazzi dell’altra parte della strada. io penso extraliminale. mi rivolgo a lui, adocchiando con cupidigia le perline e gli specchietti che fa sbarluccicare dalla tasca. gli dico che ho fame, che sto studiando da coreano e che quindi devo mangiare. lui mi sorride e mi dice cosa vuoi mangiare. mi indica il menù in coreano, io decido una cosa a caso, lui si rivolge alla proprietaria e dice dul-bibimbap. non accenna alla fine della prima repubblica.
durante il pasto scambiamo quattro parole. nel senso quattro quattro.
davide io vengo dall’italia.
coreano anche io sono cristiano.
ciononostante alla fine lui mi invita a casa sua per conoscere il primo figlio e la moglie che aspetta il secondo. dato che so che è cristiano decido di esorcizzarlo offrendogli la cena (3500 won, che sono 2.98 euro). mi lascia il suo biglietto da visita e va alla più vicina chiesa.

finalmente ho aperto il conto in banca coreana. finalmente sono entrato nel grande mondo che conta, con appoggi financo in paradisi orientali. la grande esplosione del mercato giallo. il galoppo delle tigri. per ora l’estratto dei denari è zero. il conto è a nome davidemusme (undici lettere). il codice segreto è baburu (questa è per intenditori). per completare le pratiche sono andato all’ufficio di immigrazione. lì ho dovuto avviare la trafila per avere la carta di identità coreana: presentare un certificato della scuola, mostrare il contratto, pagare 10.000 won, lasciare il mio passaporto. fino al venti marzo sono nessuno, senza tutela, senza prospettive. questa sensazione familiare mi tranquillizza.

a casa ho la televisione. l’antenna tentenna (questa è per tutti), l’unico canale anglofono che ricevo si chiama onstyle e trasmette boiate. sono diventato sexandthecitydipendente. due canali più in basso c’è una rete sportiva coreana che trasmette ininterrottamente senza pubblicità partite di go. molti di voi sanno che cosa è il go. altrettanti no. il go è un incrocio tra la dama cinese e la dama e basta. è una griglia di diciannove per diciannove incroci su cui i due giocatori a turno dispongono una pedina (nera, bianca, nera, bianca). quando disponendo le tue pedine circondi completamente una porzione delle pedine dell’avversario, tu mangi le pedine del tuo avversario. vince chi alla fine ha più pedine in campo. mio fratello adora questo gioco e correggerà meglio la breve descrizione delle regole che ho testé dato. tuttavia non riuscirà a convincermi che questo gioco non è una palla. che questo gioco merita un canale completamente dedicato. in cui passano delle ore ad analizzare la partita, con le possibili mosse non fatte e le prospettive che si aprono con le nuove configurazioni. vi è sembrato lungo inutile e tedioso questo paragrafo. immaginatevelo per ventiquattro ore. (perché lo vedo? perché non mi mandate le puntate di porta a porta in campagna elettorale, ecco perché)

questa domenica tirava troppo vento e troppo freddo per questi mezzi uomini di coreani. hanno rimandato la rivincita del gioco della palletta. in compenso mi hanno assicurato che pregheranno perché la prossima settimana faccia bello e caldo ##^^##.

in italia ho mangiato instant noodles solo una volta. qui ho visto che tutti i seveneleven ne hanno almeno uno scaffale pieno. le istruzioni sono scritte nei soliti ometti casette e sorrisini. e allora per la prima esercitazione (l’ho già detto, magari) del corso di typo&image ho chiesto di prendere la confezione dei propri instant noodles preferiti, di tradurli e ridisegnarne la grafica per il professore occidentale. nel mentre sono diventato dipendente di questo fantastico preparato completamente chimico.

sto per inviare il nuovo comunicato e mi giunge il commento di giuseppe riguardo la truffa del parcheggio ikea. ebbene, seoul è ikea-free. tempo fa gli svedesi sono sbarcati con una rivendita per testare il mercato. dopo poco hanno rinunciato, perché i coreani non hanno alcuna cultura del fai da te. se una cosa si rompe, la fanno aggiustare da altri. se una cosa è da montare, non la comprano.

accendo la televisione, prima di andare a scuola. l’inquadratura è ancora fissa sui 361 incroci della scacchiera del go.

alla prossima, davide


gffwzssi

20060310

Comunicato dall'estremo oriente #6

38 febbraio 2006
decimoterzo giorno del nuovo calendario coreano

prima immagine dalla fish ball hall.

prego notare i palazzi prospissienti

le scritte sorridenti

la gente lavorante (sono le dieci)

il telaio della finestra curva

la finestra curva

un raro esemplare di uàit monkìs giovane

tutto il resto è cielo

sì. è la prima immagine del nostro uomo in corea. non mi hanno pagato, è solo la webcam.

primo indirizzo.
davide musmeci
#908 Daebo Maronietel, 206, Yeongeon-dong, Jongno-gu, Seoul, 110-770, Korea

alla prossima, davide

ylirg

20060309

Comunicato dall'estremo oriente #5

37 febbraio 2006
decimosecondo giorno del nuovo calendario coreano,

continuo l’elenco per punti, anche se mi sembra di scrivere un testo di luigi pestilenza puglisi, stupido come un elenco del telefono e molle come l’epa di loris. per le prossime volte prometto di provare la prosa. magari intanto mi pagano e di conseguenza ci sono anche le foto.

primo fatto. venerdì mattina non c’è sveglia impostata. in compenso marco non manca di ricordarmi, fischiettando vicino a quel pezzo di pavimento che occupo con il mio comodissimo materasso, che si era deciso di andare a vedere un cantiere di un loro progetto che stanno costruendo lì vicino. faccio mollemente notare alla mia coperta che lui ha deciso che lui sarebbe andato al suo cantiere. tant’è. mi alzo, mi lavo e sono fresco come una rosa. il cantiere non interessa molto al lettore, soprattutto dato che per ora è solo una sana e bella colata di cemento. in compenso trovo la passeggiata bella e interessante; constato che come per i mercati, c’è anche lottizzazione per le vie: passiamo lungo centinaia di metri di vetrine di venditori di mobili di design. poco lontano centinaia di metri di vetrine dei venditori di vestiti della moda.
secondo fatto. ad un certo punto ci troviamo nell’ombra di uno dei soliti grattacieli (o gràttaceli, come si dice a chieri, frazione di budoia). solo che è fatto di mattoni, e ha le colonne di granito e marmo. gli intenditori avranno già riconosciuto la firma del nostro svizzero di fiducia mario botta. che ha colpito anche qui. il gràttacelo in sé non si può dire che sia brutto, anzi si distingue dalla massa di acciaio vetro che qui ritrovi ad ogni angolo; dico, cinquanta piani di mattoni paramano non sono mica pochi. e poi sotto per di più ho scoperto (okay, marco mi ha fatto scoprire) la più grande libreria in cui io abbia mai messo piede. grande grande (certo, se parliamo di libri tecnicamente da me leggibili l’edicola di mia nonna era più fornita). ho comprato una raccolta di 290 discorsi di personaggi famosi. tipo malcom x, kennedy, churchill, mussolini, bush. no, bush no.
terzo fatto. la sera abbiamo preso un taxi. la meta un quartiere un po’ trasgressivo, in quanto vicino alle scuole di arte (non mi ricordo bene, ma come motivo è abbastanza plausibile, e comunque la zonizzazione continua). per arrivarci prendiamo il taxi, perché la metropolitana a mezzanotte va a dormire. il taxi fa un giro lungo per aumentare la tariffa, o forse è proprio lunga la strada. per maggiore sicurezza di spesa ci imbottigliamo nel traffico. avremmo preso anche il fido bicilindrico italiano, se non fosse per questa pioggerellina battente che ti bagna anche le ossa (qui la chiamano assuppaviddanu). andiamo in un posto molto bello da cui si vede tutta la metropoli, o comunque quanta ce ne sta fino all’orizzonte. ci raggiunge una delle numerose donne di cui si è fregiato marco. evidentemente lei è ancora totalmente sua succube. è anche bella brava simpatica. poi andiamo in un posto bello ma sotto terra. la vista sulla città ne risente. torniamo a casa con un altro taxi, che ci mette un quarto del tempo della prima corsa. però il pilota è ubriaco e sembra addormentarsi ad ogni curva. marco fa finta di parlargli per tenerlo attento. questa è sicuramente la cosa più pericolosa che ho fatto da quando sono partito da torino, considerando anche comprare il biglietto. prima di addormentarmi guardo l’ora e sono le tre. deve essere un residuo permanente del cambio di orario, di solito alle undici io dormo.
quarto fatto. mi sveglio di buon ora, perché va bene gozzovigliare fino al mattino, ma ci sono cose importanti che mi aspettano stasera. devo comprare le scarpette per il gioco della palletta. mi avvio alla volta dell’ennesimo mercato. lo trovo solo al secondo tentativo, perché subito mi sono ficcato nella zona di negozi accalappia-turisti; ma io non sono un turista (a dispetto della mappa della città sempre in tasca), bensì un reporter… credo che ormai sappiate come è un mercato coreano. come i nostri, ma moltiplicato con un semplice gioco di specchi a buon mercato (a volte mi vengono così le minchiate: spontanee). stavolta mercato dei vestiti: tute, tute, tute, tute, tute, maglie, maglie, maglie, maglie, maglie, scarpe, scarpe, scarpe, scarpe. tutta roba padana, naturalmente. conquistate le mie nuove scarpetteperilgiocodellapalletta, scarpetteperilgiocodellapalletta, scarpetteperilgiocodellapalletta, mi sono diretto di buon passo verso il campo. erano circa dieci chilometri, ho deciso di prendere la metropolitana che ne mentre si era svegliata.
quinto fatto. sono arrivato al campus universitario dove sta il campo con mezz’ora di anticipo. e allora mi sono seduto come un collegiale su una panchina per prendere il pallido sole delle cinque e a leggere il mio nuovo libro. la solita ombra interrompe. stavolta è un iraniano. si siede e cominciamo a parlare delle solite cose. c’è una strana complicità tra le persone che si incontrano per le strade di qui, e che non hanno gli occhi sottili. perlomeno ci si scambia un sorriso. a volte ci si siede a parlare delle solite cose. credo che in questo ci sia un fondo di razzismo macchiato di retaggi colonialisti. infatti, l’iraniano mi comincia a parlare degli sporchi musi gialli. mi raccomanda di non fidarmi delle donne coreane che ti parlano e sono gentili, ma che in verità vogliono solo quello (cosa? cosa?), che loro possono farti tutte le domande che vogliono, ma che se tu gli chiedi anche solo l’età si sentono abili a non risponderti. io penso che strano sto parlando con un iraniano. poi comincia a parlarmi dei rapporti tra l’iran, l’iraq e l’america. l’america che fa la voce grossa, ma che sa che ormai è troppo tardi. sorry? sì che ormai gli iraniani stanno costruendo i razzi per mandare le bombe atomiche fino a distante. mi scappa da ridere perché penso all’amico mio etiope di ecce bombo, ma poi dico magari è vero. non gli do il mio numero di telefono, ma la mail. la sera sono già nella sua lista di messenger. mi siedo sulla collina e aspetto l’arrivo degli ashassin.
sesto fatto. per ingannare l’attesa mi dedico al gioco della palletta. arrivo allo stadio dell’università di konkuk. mi affaccio sulla distesa della tipica erbetta coreana, marrone polverosa. ci saranno duecento persone. chi gioca a volano, chi a pallavolo, chi a pallacanestro, chi corre, chi si allena a kendo (giuro!), chi gioca a mamasciola, ma il cielo è sempre più blu. in un angolo, diciamo in prossimità della curva nord, c’è un gruppo di persone che un poco corre, un poco fa streccin, un poco piegamenti. scarpette con i tacchetti e pallone in bella vista. c’è una breve discussione su chi gioca con chi, la si dirime con una mano di morra cinese (giuro!). io finisco nella squadra shaolin, siamo tutti dei professionisti. la faccio breve. loro non sanno cosa può essere la minima strategia di squadra. si gioca tutti dietro la palla. ogni rilancio dalla difesa viene salutato con un grido liberatorio. ma soprattutto: prima della partita ci si abbraccia tutti con la testa bassa e si fa l’urlo di battaglia per caricarsi; dopo la partita le due squadre si schierano una di fronte all’altra e ci si saluta maschiamente uno per uno. io non capisco come sia stato possibile quattro anni fa perdere. e a proposito di quattro anni fa:
settimo fatto. non rubare.
sesto fatto e mezzo. no, non vi dico come è andata a finire la partita.
sesto fatto e tre quarti. è che sembravano un casino, arrivavano da tutte le parti. e quando stavamo noi all’attacco mi sembrava che fossimo pochi. poi ho scoperto che erano due in più. dieci contro otto. io mi sono detto. perché non hanno fatto nove e nove? perché? perché?
sesto e quattro quinti. quattro a uno. per loro.
ottavo fatto. ormai la vita a scuola è pura routine, e craxi è morto da esiliato e non da latitante. però vale la pena trasmettere la sensazione che ho provato: essere come la papera madre seguita da sedici studenti. abbiamo fatto un sopralluogo in giro per le strade della città. roba che appena mi fermavo tutti si fermavano. appena guardavo da un lato tutti guardavano da un lato (lo stesso!). parlavo e mi stavano ad ascoltare. è una cosa bella. rientrati in aula, ho ricevuto il primo dono da una studentessa. mi sono fatto corrompere. un mandarancio. grazie si dice kamsamida.
nono fatto. oggi primo faculty meeting o come si chiama. tutti i professori sono presenti, tutti dicono cose riguardo a come non funziona e a come dovrebbe invece funzionare la scuola. io dico poco e solo su esplicita richiesta. continuo a considerarmi un uditore muto rappresentante privilegiato degli studenti.
decimo fatto. durante la riunione ci è fatta esplicita richiesta di presenziare alla premiazione di un designer giapponese che si terrà in uno dei locali della scuola. io penso che potrebbe essere interessante; roger mi dice invece che è una tipica situazione da uàit monkìs. in pratica dobbiamo fare in modo che la platea non sembri troppo vuota. e allora i professori occidentali vengo tirati fuori dalla gabbia e mostrati al pubblico, in modo che la scuola appaia più che mai internazionale. credo che roger esageri, ma in effetti la cerimonia è una palla enorme. parlano solo in coreano (hanno il buoncuore comunque di tradurre il tutto, in giapponese). ad un certo punto due dei maestri di cerimonia devono consegnare una targa e un attestato; in quel momento si atteggiano in posizione di lettura. solo che non leggono. legge al loro posto un narratore da dietro le quinte. c’è quindi questo strano momento in cui sembra di assistere alla trasposizione teatrale di una puntata di magnum PI; quando il detective si metteva a pensare, e si sentiva la voce fuori campo. credete, quia absurdum est. per intanto noi, gran scorpacciata di banane.
undicesimo fatto. vi sto scrivendo dalla stanza ovale, da oggi in poi anche la fish ball hall. la stanza della torre dove da questa sera alloggio. ho aspettato tanto questo momento. la realizzazione della treccia da gettare quando finalmente claudia verrà a trovarmi procede con la tranquillità delle cose attese. scrivo nell’ombra della luce spettrale dello schermo. al di là della strada caratteri incomprensibili, ma ormai familiari, sorridono per il solletico dei gràttaceli di seoul. mamma, sto al nono piano, come quelli ricchi.

alla prossima, davide


zigjn
hdbmcax

20060304

Comunicato dall'estremo oriente #4

32 febbraio 2006
settimo giorno del nuovo calendario coreano,

primo fatto. ho iniziato a girare per i posti dove ci sono i locali notturni. avevo dimenticato la macchina foto e quindi niente immagini, per ora. comunque le sapete già, quelle strade con tutti i fili che passano da una casa all’altra, illuminati dalle mille e mille luci delle mille e mille insegne dei mille e mille locali. (così sembrano seimila, ma probabilmente sono di più). fino al terzo e quarto piano e oltre. non è che abbiamo fatto vita da sera, dato il secondo fatto (vedi dopo), ma almeno un’occhiata l’ho data. mi riprometto di passarci di nuovo. è stata una sorta di serata nostalgica (il sesto giorno? eh, la distanza fa questo ed altro) presenti i vari della combriccola italiana: marco (main host) simone (main host) cijé (che poi si scrive jihye ed è bella brava simpatica e generalessa, main host) fabrizio (toscano di follonica, idas professor) alessandro (sardo di cagliari, hongik professor). si mangia sul solito tavolo con il buco ed il braciere in mezzo, ma al posto della carnazza alla griglia c’è una pentola con il brodo di verdura e panetti di farina di pesce ed altro, piattini di salsine intorno, un vassoio con rotolini di manzo affettato fine fine che sembrava bresaola. prendi il rotolino, lo butti nel pentolone, aspetti trenta secondi che quocisca, lo riprendi, passata nelle salsine, boccone e via per l’altro rotolino di manzetto. fino alla fine dei rotolini. dopo rimane ancora del brodo e della verdura (un po’ di meno dell’inizio, perché mangiarne ne hai già mangiata). al che arriva il cameriere. ci chiede se vogliamo del riso a dei noodles. risponde marco. io decido di fidarmi, il manzo stavolta ce l’ho già nello stomaco. il cameriere va e il cameriere torna. porta in dono un piatto di noodles che sembrano freschi appena fatti e una stone da curling piena di brodo. versa il brodo nella pentola, versa i noodles nella pentola (un cameriere all’altro tavolo fa lo stesso, ma con il riso invece dei nudlz). poi si mette a cucinare. al tavolo. adorabile. dopo paghiamo salutiamo e andiamo a dormire. io non dormo tanto, perché domani è il grande giorno.
secondo fatto. mi sveglio alle sette. ma mi sono addormentato alle due. doccia e pantaloni quelli belli con le pences. (pensa un po’, neanche mauro berta...). la cintura. la giacchina da mao, ma non quella che tutti ricordate, una che sembra un po’ di più una blusetta di gins. e poi metropolitana da ap-pugion a chon-gru, poi fino a haye-wa (i nomi non è detto che siano totalmente sfasati). arrivo mezz’ora prima della lezione. la lezione è preparata, ma ancora non ho capito la metafora del leone del lupo e della lonza. sono emozionato. tutto ciò che non sai non serve. tutto ciò che non fai non ferve. non so se stare in piedi. o seduto. scrivo alla lavagna? apro le tende? sorrido? mi capiscono se parlo così veloce? (veloce?) questo lo ripeto. così è più chiaro. poi chiedo i loro nomi. no così non si capisce. li faccio scrivere in lettere come la madonna chiede. rido? domande? occhéi, sono pronto. vado.
è già finito.
mi guradano. hanno capito? hanno capito. e le domande: da dove vieni? anni? cosa ha fatto? (sono tutte cose che ho già detto, sia chiaro. ho disegnato anche i cinque cerchi. per essere chiaro ho scritto ‘terra dello short-track’). le domande si susseguono e mi sembra di ridire le stesse cose. forse non sono stato chiaro. no. me lo chiedono di nuovo. poi dico ci vediamo tutti quanti martedì davanti alla scuola che iniziamo la prima esercitazione. loro vanno. tutti tranne un paio di studenti ed il capoclasse. dev’essere che durante la lezione ne ho nominato uno, chi sa. si chiama choi. ci scambiamo la mail. mi fa notare che l’ho segnata alla lavagna. (mi volto, vedo un nugolo di segni che ho fatto e spicca cerchiato il mio nome, la traslitterazione in coreano, l’indirizzo mail, cinque cerchi). le altre studentesse rimaste (sono in tutto undici le donne) mi fermano ancora. le gurado. nessuna Collegiale tra di loro. mi chiedono per la terza volta cosa intendo per lost space. mi sembra chiaro. ma lo spiego un’altra volta. lo spazio perso è quello che un giorno ritroverai.
terzo fatto. torno in sala professori, la sala quella nuova per i due professori nuovi. siamo io e una tale che si chiama kim, come un terzo dei coreani. lei è nata in corea, e ha studiato negli states per dodici anni. è una graphic designer. ho un attacco di depressione post parto. cosa ci faccio io qui, nato nella periferia culturale e cresciuto ai giardinetti? mi giro verso il mio cubicolo, vedo la cartina di torino e la foto di archipendolo. chiedo loro scusa e sorrido.
quarto fatto. verso l’una fabrissio si affaccia dal fondo della sala e mi chiede se voglio andare a mangiare con loro. io sono già tornato in pieno nelle mie nuove scarpe da professore e dico aspettatemi giù, che finisco di scrivere questa mail e arrivo. chiudo google earths e campo minato e mi avvio. il cibo era la solita brodaglia vietnamita (buonissima). c’era anche un francese designer che lavora alla volvo truks era molto divertente e simpatico. ma essendo francese non mi ha detto il nome. tant’è. rimarrà anonimo al grande pubblico del blog. sì insomma. 'sto quarto fatto non è stato granché.
quinto fatto. ho già trovato il mio posto preferito. è un antico caffè al primo piano che si affaccia sulla grande strada. è antico in quanto ha quindici anni. l'aria torinese c’è tutta e anche quella luce così sbiadita brillante e grigia, che tanto mi mancava dopo le rutilanti olimpiadi. divani bassi e tavolini lignei. la musica classica. dentro solo gente di quindici anni fa. quasi mi commuovo. altro che lounge bar. un raggio di sole debole e polveroso mi accarezza e mi dà il benvenuto.
sesto fatto. tornato a casa con un taxi condiviso con hoosung mik, altro docente. finalmente in auto riusciamo a rompere l’ultimo tabù che mi rimaneva. finalmente lui mi racconta l’esperienza esaltante degli ultimi mondiali, quelli in korea (e giappone). quando tutta la gente scese per le strade, tutta rossa tutta impazzita per la gioia. io mi ricordo di quando bambino vidi passare il camion dipinto di verde, di bianco, di rosso, di azzurro. con la gente che gridava. gridava forza it~ gridava viva berlinguer viva il partito comunista italiano. nel 1982. avevo... cambio pensiero, mi sforzo. dico che i coreani avevano talmente tanta voglia di vincere che è stato giusto così. poi penso a moreno. poi penso a lupacrì che si alza con un cristo appena finita la partita. hoosung ammette che la pressione del pubblico probabilmente ha influenzato l’arbitro. il taxi arriva.
settimo fatto. arrivo a casa con in mente la canzone da stadio che i coreani stanno preparando per il prossimo mondiale. la danno alla televisione, mostrando il tifo che si organizza con tanto di cuffie per essere intonati. gli altri mi stanno aspettando con il pesce le bacchette e il riso. dopo, ormai come una routine, ma meglio di una routine perché è una dipendenza consapevole, risiko (estati, come ricordo battiato, passate a giocare a risiko sulla terrazza in sicilia). con un’azione di strategia raffinata e con tattiche di consumata esperienza finalmente faccio valere la forza e l’efficienza delle mie armate. il colore dei carri è rosso perché il sangue versato dalla eroica e fiera schiera non esalti il nemico. la totalità dell’asia e la totalità dell’africa sono presto in mano mia. il mondo intero si china al potere della purpurea razza.
ottavo fatto. mi sveglio con ancora nelle orecchie il clangore dei dadi. oggi vado a fare una passeggiata dalle parti di coex. coex è un centro commerciale a sud est del centro di seoul, grande come un isolato. questo al piano interrato. al primo piano e per decinaia di piani al di sopra di esso è decinaia di cose diverse, tra cui la borsa, il world trade center, una manata di alberghi, un terminal dell’aereoporto (con tanto di check-in in mezzo alla città), e c’è sicuramente anche qualcosa di più istituzionale dentro. insomma come bonino, murkajiee, patti e tabò, ma ancora di più. io sono stato in visita passeggera per un paio di ore; solo a camminare, intendo. cercavo anche la macchina foto, ma quella l’ho cercata più tardi con più convinzione. uscito da coex ho preso la metropolitana. non sono neanche uscito da coex, dato che è tutto collegato. certo che sapevo che esistono queste cose, ma non a torino.
nono fatto. sono sceso a konguk university, che è il campus dove c’è l’università dove insegna marco. che come certo ricorderete è il main host. nel senso che quasi sempre è l’ultima persona che vedo prima di andare a dormire e il primo essere che vedo quando mi sveglio. e viceversa. a honguk c’è un lago artificiale nel mezzo. mi sono fermato un po’ lì davanti a pensare e mangiare e riposare le stanche membra dopo tre ore di camminata. quand’ecco che alle spalle un rumore amico mi sussurra di voltarmi. un pallone! i coreani giocano a pallastrada! mi sono seduto con l'andi dell’osservatore internazionale e ho cominciato a fare i naturali paragoni. io dico che li spacchiamo. ho sorriso sornione nel sole tiepido. due ragazzi coreani in quel momento si sono appressati e con un inglese più stentato del mio mi hanno chiesto da dove vengo. ora io scrivo prima quello che ho pensato e poi quello che ho detto

>koreani: da dove vieni?
davide figo: da un sacco di posti diversi
davide vero: vengo dall’italia
>k: siamo cattolici
df: diufaus!
dv: io più o meno
>k: scusa?
df: ohmadonna!
dv: si, vengo da una nazione fondamentalmente cattolica
>k: sei studente?
df: sì
dv: no, eheh _dito sul ponte dell’occhiale_ sono professore di un’altra facoltà… _arrossisco_
>k: ah...
df: eh...
dv: eh...
>k: ah...
df: sapete cosa è il vero calcio?
dv: vi piace il calcio?
nono fatto e mezzo. domenica allo stadio di honguk l’atteso ritorno di antonio-musmo-cassano (copia non conforme all’originale) sui campi da gioco. scomparso dall’italia, sparito da madrid, rieccolo a seoul. alle diciotto ora locale, saranno le dieci in italia. ci vediamo su tuttosport di lunedì.
decimo fatto. poi ho incontrato marco, e siamo andati in uno dei paradisi dell’elettronica di seoul. il nome alla prossima puntata, forse. è semplicemente un palazzo di sei o sette piani di roba tecnologica. 280.000 kwon, che sono 240 € per una nikon abbastanza tascabile (mi pare che il nome sia s3, con 6 megapixel). la trattativa per un prezzo più basso si è arenata subito dopo che ho estratto la carta visaelectron. approfitto di questo spazio per chiedere ai tecnici tra gli ascoltatori se varrebbe la pena di tornare con i contanti e strappare un prezzo di 10 € in meno. oppure andare direttamente a cercare da qualche altra parte.
nono fatto e tre quarti. mi è arrivato un messaggio di buona notte da uno dei ragazzi che mi hanno invitato alla partita di domenica. dice >>hi divide i’m sejin --^^-- have a good night! #<<. aiuto.


alla prossima, davide

20060302

Comunicato dall'estremo oriente #3

giovedì 30 febbraio
sesto giorno del nuovo calendario coreano
prima vera immagine originale dalla corea...
seconda vera immagine originale dalla corea...

le altre foto al primo aquisto di macchina digitale!

alla prossima, davide