37 febbraio 2006
decimosecondo giorno del nuovo calendario coreano,
continuo l’elenco per punti, anche se mi sembra di scrivere un testo di luigi pestilenza puglisi, stupido come un elenco del telefono e molle come l’epa di loris. per le prossime volte prometto di provare la prosa. magari intanto mi pagano e di conseguenza ci sono anche le foto.
primo fatto. venerdì mattina non c’è sveglia impostata. in compenso marco non manca di ricordarmi, fischiettando vicino a quel pezzo di pavimento che occupo con il mio comodissimo materasso, che si era deciso di andare a vedere un cantiere di un loro progetto che stanno costruendo lì vicino. faccio mollemente notare alla mia coperta che lui ha deciso che lui sarebbe andato al suo cantiere. tant’è. mi alzo, mi lavo e sono fresco come una rosa. il cantiere non interessa molto al lettore, soprattutto dato che per ora è solo una sana e bella colata di cemento. in compenso trovo la passeggiata bella e interessante; constato che come per i mercati, c’è anche lottizzazione per le vie: passiamo lungo centinaia di metri di vetrine di venditori di mobili di design. poco lontano centinaia di metri di vetrine dei venditori di vestiti della moda.
secondo fatto. ad un certo punto ci troviamo nell’ombra di uno dei soliti grattacieli (o gràttaceli, come si dice a chieri, frazione di budoia). solo che è fatto di mattoni, e ha le colonne di granito e marmo. gli intenditori avranno già riconosciuto la firma del nostro svizzero di fiducia mario botta. che ha colpito anche qui. il gràttacelo in sé non si può dire che sia brutto, anzi si distingue dalla massa di acciaio vetro che qui ritrovi ad ogni angolo; dico, cinquanta piani di mattoni paramano non sono mica pochi. e poi sotto per di più ho scoperto (okay, marco mi ha fatto scoprire) la più grande libreria in cui io abbia mai messo piede. grande grande (certo, se parliamo di libri tecnicamente da me leggibili l’edicola di mia nonna era più fornita). ho comprato una raccolta di 290 discorsi di personaggi famosi. tipo malcom x, kennedy, churchill, mussolini, bush. no, bush no.
terzo fatto. la sera abbiamo preso un taxi. la meta un quartiere un po’ trasgressivo, in quanto vicino alle scuole di arte (non mi ricordo bene, ma come motivo è abbastanza plausibile, e comunque la zonizzazione continua). per arrivarci prendiamo il taxi, perché la metropolitana a mezzanotte va a dormire. il taxi fa un giro lungo per aumentare la tariffa, o forse è proprio lunga la strada. per maggiore sicurezza di spesa ci imbottigliamo nel traffico. avremmo preso anche il fido bicilindrico italiano, se non fosse per questa pioggerellina battente che ti bagna anche le ossa (qui la chiamano assuppaviddanu). andiamo in un posto molto bello da cui si vede tutta la metropoli, o comunque quanta ce ne sta fino all’orizzonte. ci raggiunge una delle numerose donne di cui si è fregiato marco. evidentemente lei è ancora totalmente sua succube. è anche bella brava simpatica. poi andiamo in un posto bello ma sotto terra. la vista sulla città ne risente. torniamo a casa con un altro taxi, che ci mette un quarto del tempo della prima corsa. però il pilota è ubriaco e sembra addormentarsi ad ogni curva. marco fa finta di parlargli per tenerlo attento. questa è sicuramente la cosa più pericolosa che ho fatto da quando sono partito da torino, considerando anche comprare il biglietto. prima di addormentarmi guardo l’ora e sono le tre. deve essere un residuo permanente del cambio di orario, di solito alle undici io dormo.
quarto fatto. mi sveglio di buon ora, perché va bene gozzovigliare fino al mattino, ma ci sono cose importanti che mi aspettano stasera. devo comprare le scarpette per il gioco della palletta. mi avvio alla volta dell’ennesimo mercato. lo trovo solo al secondo tentativo, perché subito mi sono ficcato nella zona di negozi accalappia-turisti; ma io non sono un turista (a dispetto della mappa della città sempre in tasca), bensì un reporter… credo che ormai sappiate come è un mercato coreano. come i nostri, ma moltiplicato con un semplice gioco di specchi a buon mercato (a volte mi vengono così le minchiate: spontanee). stavolta mercato dei vestiti: tute, tute, tute, tute, tute, maglie, maglie, maglie, maglie, maglie, scarpe, scarpe, scarpe, scarpe. tutta roba padana, naturalmente. conquistate le mie nuove scarpetteperilgiocodellapalletta, scarpetteperilgiocodellapalletta, scarpetteperilgiocodellapalletta, mi sono diretto di buon passo verso il campo. erano circa dieci chilometri, ho deciso di prendere la metropolitana che ne mentre si era svegliata.
quinto fatto. sono arrivato al campus universitario dove sta il campo con mezz’ora di anticipo. e allora mi sono seduto come un collegiale su una panchina per prendere il pallido sole delle cinque e a leggere il mio nuovo libro. la solita ombra interrompe. stavolta è un iraniano. si siede e cominciamo a parlare delle solite cose. c’è una strana complicità tra le persone che si incontrano per le strade di qui, e che non hanno gli occhi sottili. perlomeno ci si scambia un sorriso. a volte ci si siede a parlare delle solite cose. credo che in questo ci sia un fondo di razzismo macchiato di retaggi colonialisti. infatti, l’iraniano mi comincia a parlare degli sporchi musi gialli. mi raccomanda di non fidarmi delle donne coreane che ti parlano e sono gentili, ma che in verità vogliono solo quello (cosa? cosa?), che loro possono farti tutte le domande che vogliono, ma che se tu gli chiedi anche solo l’età si sentono abili a non risponderti. io penso che strano sto parlando con un iraniano. poi comincia a parlarmi dei rapporti tra l’iran, l’iraq e l’america. l’america che fa la voce grossa, ma che sa che ormai è troppo tardi. sorry? sì che ormai gli iraniani stanno costruendo i razzi per mandare le bombe atomiche fino a distante. mi scappa da ridere perché penso all’amico mio etiope di ecce bombo, ma poi dico magari è vero. non gli do il mio numero di telefono, ma la mail. la sera sono già nella sua lista di messenger. mi siedo sulla collina e aspetto l’arrivo degli ashassin.
sesto fatto. per ingannare l’attesa mi dedico al gioco della palletta. arrivo allo stadio dell’università di konkuk. mi affaccio sulla distesa della tipica erbetta coreana, marrone polverosa. ci saranno duecento persone. chi gioca a volano, chi a pallavolo, chi a pallacanestro, chi corre, chi si allena a kendo (giuro!), chi gioca a mamasciola, ma il cielo è sempre più blu. in un angolo, diciamo in prossimità della curva nord, c’è un gruppo di persone che un poco corre, un poco fa streccin, un poco piegamenti. scarpette con i tacchetti e pallone in bella vista. c’è una breve discussione su chi gioca con chi, la si dirime con una mano di morra cinese (giuro!). io finisco nella squadra shaolin, siamo tutti dei professionisti. la faccio breve. loro non sanno cosa può essere la minima strategia di squadra. si gioca tutti dietro la palla. ogni rilancio dalla difesa viene salutato con un grido liberatorio. ma soprattutto: prima della partita ci si abbraccia tutti con la testa bassa e si fa l’urlo di battaglia per caricarsi; dopo la partita le due squadre si schierano una di fronte all’altra e ci si saluta maschiamente uno per uno. io non capisco come sia stato possibile quattro anni fa perdere. e a proposito di quattro anni fa:
settimo fatto. non rubare.
sesto fatto e mezzo. no, non vi dico come è andata a finire la partita.
sesto fatto e tre quarti. è che sembravano un casino, arrivavano da tutte le parti. e quando stavamo noi all’attacco mi sembrava che fossimo pochi. poi ho scoperto che erano due in più. dieci contro otto. io mi sono detto. perché non hanno fatto nove e nove? perché? perché?
sesto e quattro quinti. quattro a uno. per loro.
ottavo fatto. ormai la vita a scuola è pura routine, e craxi è morto da esiliato e non da latitante. però vale la pena trasmettere la sensazione che ho provato: essere come la papera madre seguita da sedici studenti. abbiamo fatto un sopralluogo in giro per le strade della città. roba che appena mi fermavo tutti si fermavano. appena guardavo da un lato tutti guardavano da un lato (lo stesso!). parlavo e mi stavano ad ascoltare. è una cosa bella. rientrati in aula, ho ricevuto il primo dono da una studentessa. mi sono fatto corrompere. un mandarancio. grazie si dice kamsamida.
nono fatto. oggi primo faculty meeting o come si chiama. tutti i professori sono presenti, tutti dicono cose riguardo a come non funziona e a come dovrebbe invece funzionare la scuola. io dico poco e solo su esplicita richiesta. continuo a considerarmi un uditore muto rappresentante privilegiato degli studenti.
decimo fatto. durante la riunione ci è fatta esplicita richiesta di presenziare alla premiazione di un designer giapponese che si terrà in uno dei locali della scuola. io penso che potrebbe essere interessante; roger mi dice invece che è una tipica situazione da uàit monkìs. in pratica dobbiamo fare in modo che la platea non sembri troppo vuota. e allora i professori occidentali vengo tirati fuori dalla gabbia e mostrati al pubblico, in modo che la scuola appaia più che mai internazionale. credo che roger esageri, ma in effetti la cerimonia è una palla enorme. parlano solo in coreano (hanno il buoncuore comunque di tradurre il tutto, in giapponese). ad un certo punto due dei maestri di cerimonia devono consegnare una targa e un attestato; in quel momento si atteggiano in posizione di lettura. solo che non leggono. legge al loro posto un narratore da dietro le quinte. c’è quindi questo strano momento in cui sembra di assistere alla trasposizione teatrale di una puntata di magnum PI; quando il detective si metteva a pensare, e si sentiva la voce fuori campo. credete, quia absurdum est. per intanto noi, gran scorpacciata di banane.
undicesimo fatto. vi sto scrivendo dalla stanza ovale, da oggi in poi anche la fish ball hall. la stanza della torre dove da questa sera alloggio. ho aspettato tanto questo momento. la realizzazione della treccia da gettare quando finalmente claudia verrà a trovarmi procede con la tranquillità delle cose attese. scrivo nell’ombra della luce spettrale dello schermo. al di là della strada caratteri incomprensibili, ma ormai familiari, sorridono per il solletico dei gràttaceli di seoul. mamma, sto al nono piano, come quelli ricchi.
alla prossima, davide
zigjn
hdbmcax
5 comments:
Ci sono alcune cose che mi ricordano i miei passaggi nel sud est asiatico.
Le strade monoprodotto. In Vietnam ne avevo vista una solo di lapidi e ornamenti funerari (a proposito, per tenerti aggiornato su Torino ti mando ASAP le nuove campagne Giubileo).
la bizzarra somiglianza tra il modo in cui in corea chiamano la pioggerellina e il modo in cui i siciliani chiamano la pioggerellina. Ma la parola ha anche un che di indiano. Nuove teorie delle migrazioni?
a quando una macchina fotografica per illustrarci tutto ciò? Oppure preferisci l'evocatività della prosa?
sappi solo che un russo ubriachissimo durante le olimpiadi ha voluto la mia maglia di totti comprata a porta palazzo in cambio della sua originale della nazionale sovietica di hockey. io non volevo, ma poi ho pensato che il mio gemello è partito, quindi tant'è.
Grande Musmo, questi racconti sono il prossimo bestseller di natale. E Maurizio Costanzo con Francesca Neri compreranno i diritti, e Giampiero Mughini lo recensirà , e Muccino farà un film dal libro, e suo fratello INTERPRETERA' TE!
Meno male che sei in corea, va.
Ma hai scoperto come fare a votare?
madonna ci ho il fratello fascio
ho scoperto come votare, si.
bastava rinunciare alla pensione dell'inarcassa.
ho pensato, per quel che mi vale...
ho rinunciato.
io i fratelli mus_mù non li capisco, ma mi piacciono tanto.
chissà quando scriverà la mamma!
uh, già me la immagino tutta attenta che rilegge il blog del figlio suo prodigo (oh nove piani mica son pochi!)..
e subito mi commuovo.
buongiorno signora!
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