20060914

Le parole che non ti so dire

antefatto: io di coreano so niente. tanto meno di filologia. tuttavia percepisco la di loro indispensabilità.

quando sento parlare gli idiomi indoeuropei che non comprendo, mi sembra naturale cogliere alcune parole conosciute nel mazzo del discorso. queste fanno evidentemente parte del territorio culturale comune: non ci faccio attenzione, il più delle volte. (molta più specie sentire ordinateur e mégaoctet o ratòn).

anche nel coreano, che notoriamente è con l’italiano una delle due lingue fulcro del mondo del commercio internazionale, è quindi invalso l’uso di termini di idiomi fondamentalmente anglosassoni per sintetizzare un concetto. in particolare nel mondo dell’elettronica le parole computer megabyte mouse printing system brand design business (ma anche burgerking e macdonald), sono traslitterate in caratteri hangul, pur rimanendo grossomodo salva la pronuncia.

leggendo mi ritrovo a trascinarmi da un carattere all’altro biascicando come ubriaco un pe-nh bo-lhl per comprare una misera penna sfera.

seguire una conferenza di un designer coreano, saltando da un albero di business planning ad un ramo di trend setting; inventando liane per attraversare il ciacolìo sfuggente, in aria fino al prossimo accounting environment. sbattere come in un’epifania contro il palo della parola madre di tutte, che il coreano sente il bisogno di prendere dall’ingelse, perché un equivalente non lo sa usare: communication.

come annunciato nel cablogramma #2, questo post è stato pubblicato in blurb, per la rubrica so long and thanks for all the fish.

alla prossima, davide

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